La fiction pittorica di Nicholas Tolosa

Mi capita ormai sempre più spesso, in questo periodo di depressione economica e quindi di precarietà psicologica di chiedermi quale analisi ne avrebbe tratto Pier Paolo Pasolini: cosa avrebbe aggiunto alla sua già chiara visione della politica e sostanzialmente della vita di ciascuno di noi, del corso della storia ovvero della nostra storia. Nelle sue parole diventa evidente quanto sia attuale ciò che pensava: «Io detesto soprattutto il potere di oggi […]. Sono caduti dei valori e sono stati sostituiti con altri valori sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti con altri modelli di comportamento […]. Volevano che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarlo dovevano realizzare un altro modello umano […]. L'uomo è sempre stato conformista. La caratteristica principale dell'uomo è quella di conformarsi a qualsiasi tipo di potere o di qualità di vita trovi nascendo. Forse più principalmente l'uomo è narciso, ribelle e ama molto la propria identità ma è la società che lo rende conformista e lui ha chinato la testa una volta per tutte agli obblighi della società. Io mi rendo ben conto che se le cose continuano così l'uomo si meccanizzerà talmente tanto, diventerà così antipatico e odioso, che, queste libertà qui, se ne andranno completamente perdute».

 

Infondo Pasolini sapeva bene quello che sarebbe accaduto, ultimo vero profeta del nostro tempo, le cui capacità di preveggenza non avevano natura divina, ma erano, più semplicemente, il frutto di un uso intelligente del pensiero, della critica e della ricerca. Immerso nella realtà più forte, la sua sedia di regista non era posta fuori dalla scena ma nell’inquadratura stessa, privo di ogni filtro, di ogni preconcetto scrutava l’altro alla ricerca di una verità che parlasse anche di sé e credeva fermamente nella possibilità di curare la cancrena che avvelenava la nostra società.

 

Anche Nicholas Tolosa mette la sua sedia da regista o scenografo dentro l’inquadratura, con la sua pittura entra nella storia, facendola propria, attraversandola nella memoria e lasciandosi attraversare emotivamente.

 

La grande nostalgia che si percepisce a un primo sguardo è quanto mai fuorviante. Le figure che popolano l’immaginario pittorico, infatti, posano non come icona di piccole e grandi tragedie umane ma più come icone di un tempo dove le immagini sono indagate, sviscerate e deturpate dallo sguardo molesto dell’osservatore che nello spingere la vista entro le pieghe dell’accaduto non fa altro che alimentare un insano ed egoistico, seppur insito e atavico, senso della morte.

 

Il pittore salernitano non si sposta di molto dal bianco e nero quasi a richiamare quella, non unica, funzione della fotografia della documentazione asettica, eppure l’effetto ottenuto è contrario, straniante. Le composizioni così grigie paiono invece, per dirla alla Picasso, colme di colore. Ma si tratta di un colore violento, acido, di denuncia. L’indifferenza che queste figure suscitano oltre la subitanea commozione è incredibile, abituati ormai a una riflessione superficialissima e un sentenziare sempre più rapido ma vacuo. 

 

Fra le opere, paradossalmente la più dolorosa è l’Autoritratto del 2011, il punto di partenza per conoscere il lavoro di questo giovane artista. Una posa simile a quella di Van Gogh nel taglio del piano e negli occhi dai quali traspare tutto il disincanto di chi continua a percorrere la sua esistenza combattendo con le difficoltà e le ingiustizie di oggigiorno. Diverso dagli altri volti come Gli occhi dell’Africa, Treblinka o L’urlo della pace qui l’immagine diventa ritratto fra i ritratti. Il viso del ragazzo diventa semplice manichino fra quelli dipinti sullo sfondo ed è forse un modo per raccontare quanto quello che accade, diventi parte di noi anche se distante nel tempo. Un modo insomma per narrare della parte più oscura di se stesso abbracciandola e rendendosi colpevole quanto i veri esecutori della violenza. Viene fuori quella delusione verso l’uomo che tanto colpì gli espressionisti d’inizio Novecento ma con quella capacità tutta di Tolosa di incunearsi nel vissuto, di autodenuncia, di riconoscere l’incapacità di opporsi allo scorrere degli eventi.

 

In conclusione, guardare le sue opere non vuol dire essere semplici spettatori ma protagonisti effettivi della pittura, intesa come possibilità di riflessione costretta rispetto alla quotidianità che non è molto lontana dalla grande Storia.