VISITAZIONE DEL DRAMMA CONTEMPORANEO

Lineamenti duri e occhi sbarrati, visi lignei e sguardo malinconico, questi sono i volti dei dipinti di Nicholas Tolosa, giovane ed emergente artista del salernitano (Eboli), tra l’altro insegnante di disegno e storia dell’arte. Questo è lo scenario della mostra in allestimento che racchiude la produzione artistica di Tolosa dal 2009 al 2015.  Un’apparente fotografia che deturpa i volti per poterli rielaborare secondo una visione umana e non meccanica. Qui non sono disegnati volti michelangioleschi, non c’è la perfezione anatomica della Pietà vaticana eppure la drammaticità incombe sonora sulle menti degli osservatori.

 

Visitare l’altro, prestargli ascolto ed attenzione, a questo ci invita Tolosa. Nell’inarrestabile società di massa, la visitazione è ormai l’unica forma di conoscenza, perché soltanto vis à vis non si può evitare il confronto con l’altro, con il diverso, con l’ignoto. Perché ciò che è misterioso ci mette alla prova e l’uomo moderno, così fragile e smarrito, ha paura di perdere anche quei pochi punti di riferimento a cui può ancora aggrapparsi. Eppure Tolosa, acutamente, spinge l’occhio dell’osservatore verso lo sguardo altrui, o meglio, è il soggetto ritratto che cattura l’attenzione dell’altro. Non ci resta che la visitazione come forma di conoscenza, l’unica possibile, l’unica che non può escludere l’ammirazione del volto umano. Quindi, visitare vuol dire agire, porre il proprio segno nel mondo, mediare tra me e l’altro. Tramite la diversità finora ignorata, il soggetto pensante può ricollocarsi nel sistema della società, ridefinire la sua identità, e, dunque, in sostanza, autoriconoscersi così come fa Tolosa nel suo acrilico su tela del 2011, “Autoritratto”. Quest’opera non sarà esposta nella mostra di riferimento ma è segno del profondo lavoro che l’artista ha fatto innanzitutto su se stesso prima che sugli altri. Se non si è capaci ma, soprattutto disposti, a guardare dentro se stessi, come si può pretendere di entrare in confidenza con l’altro? Appunto, la con-fidenza presuppone una fiducia condivisa che può avvenire solo nell’ambito della collettività. L’uomo è un essere sociale. Questo continua a ribadire Tolosa, perciò non può più tollerare le aberrazioni e, ancor di più, le emarginazioni sociali nel XXI secolo. Non possiamo fare a meno del contatto con l’altro, per questo qui non si rinnega l’idea di collettività ma la formalità dei rapporti, le convenzioni sociali, la mancanza di autenticità umana.

La percezione della realtà è intus, dentro di noi, quindi, intima. Tolosa non sperimenta lo stato di trans tipico, ad esempio, di Pollock ma fa in modo che lo shock sia riversato sull’osservatore. È lui che deve rielaborare e riflettere. Questa non è un’arte di massa, non la si può riprodurre in serie, meccanicamente, non rende immediatamente il senso del bello, perché la bellezza è da ricercare prima negli occhi del soggetto osservato e poi in quello osservante. Il fil rouge di questa mostra è il nosce te ipsum, conosci te stesso senza dimenticare l’altro, il diverso in rapporto anche al trascorrere del tempo. Anche il mio Io passato è diverso rispetto all’Io presente.

 

L’analisi sulla realtà è però impietosa perché drammatica è l’esistenza stessa. Tolosa non si limita a rappresentare ma desidera ardentemente denunciare. Non è propriamente un artista militante ma, con i suoi mezzi, vuol scuotere gli animi contemporanei. La finalità non è far politica ma agire sul mondo e, innanzitutto, agire nel proprio e sul proprio frangente esistenziale. Egli dipinge per vivere. Un inno artistico non troppo diverso da quello ermetico di Carlo Bo, “la letteratura come vita”. Una mente pensante non discerne vita e arte ma le assembla in modo inestricabile. Pertanto, quello messo in scena, allestito, non è soltanto un dramma fittizio ma il dramma della vita. Etimologicamente il dramma significa azione e non si può vivere senza incidere un segno sulla propria epoca. Tolosa l’ha fatto, ha agito, ha sofferto, ha riflettuto insieme alle sue stesse creazioni.

 

Il forte impatto creato dalla produzione tolosiana è reso soprattutto da una scelta netta e coraggiosa, l’uso esclusivo del bianco e nero. Una scelta stilistica necessaria per dare tatto alla sofferenza umana. Si tratta della stessa gamma cromatica della “Guernica” picassiana, uno scenario di guerra, di brandelli umani, di penitenze ingiuste. In questi casi, più del rosso vivido del sangue, “l’apatia” dei colori-non colori (il bianco e il nero) rende l’insensatezza delle azioni degli uomini. L’alternanza tra bianco e nero è metafora della dicotomia tra bene e male che sussistono per antitesi. Questa scelta stilistica è quella che più si avvicina allo scatto fotografico per immortalare pensieri e non soggetti, azioni e non immagini. Anziché scomporre in figure geometriche quelle umane, Tolosa, a differenza di Picasso, ha deciso di essenzializzare le forme, di sintetizzare i tratti del volto per dare espressione soltanto ai sentimenti, per lo più sgomenti. Sono le pulsazioni del cuore, le angosce umane a dipingere su tela quelle linee che poi prendono forma nella complessità della mostra.

 

Una svariata gamma di colori pastello poteva essere più appropriata per dare tocchi di vivacità alle scene del divertissement francese nei dipinti impressionisti, invece, nelle immagini tolosiane, un terzo colore potrebbe persino sembrare fuori luogo, superfluo. Anche in “Poveri in riva al mare”, per ridare un senso di mestizia e di afflizione composta, Picasso sceglie una gamma di colori molto limitata, quella del blu in tutte le sue sfumature. La visione dei personaggi picassiani, scalzi ed infreddoliti, emblema della moderna Sacra Famiglia non è poi molto distante dal quadro familiare della tolosiana “Povertà”. È un delicato equilibrio quello del ritratto contemporaneo dove il realismo non deve essere fotografico ma psicologico, dove ormai si è già sperimentato troppo e, così, l’originalità stilistica diventa un dono soltanto di pochi artisti. Un po’ come il giallo ossessivo di Van Gogh e il rosso acceso-non sfumato di Matisse, il bicolore di Tolosa diventa un unicum nel suo genere, un tratto caratteristico e distintivo, un sorta di biglietto da visita per addentrarsi successivamente nel messaggio contenutistico dell’opera. Perché lo stile pittorico, il tocco del pennello sono i primi elementi che l’occhio percepisce sulla tela. Dunque, intento morale e scelta stilistica devono sempre percorrere due linee che convergono verso lo stesso fine. Tutto ciò avviene nella mostra di Tolosa.

 

Nella compostezza dei visi quasi bidimensionali, emerge decoro, dignità e umiltà nonostante la visibile ed innegabile situazione disagiata, di declassamento. È un grido di dolore dalle forme più composte rispetto all’urlo di Edvard Munch ma non per questo meno sentito, meno sofferto. L’uomo contemporaneo vive il dramma del suo tempo, sperimenta i lati più agghiaccianti della società di massa, che sia di fine Ottocento o del XXI secolo non importa, soffre nella collettività così gerarchizzata laddove perde la propria identità e dignità. La bravura di Tolosa consiste nel ridare voce a quelle figure sociali che solitamente non hanno influenza sull’opinione pubblica. Per linguaggi simbolici, Tolosa rappresenta figure quasi bidimensionali immerse in un tempo e in uno spazio apparentemente evanescenti eppure bastano pochissimi elementi per riconoscere le coordinate di questi dipinti. Un cartello come Treblinka, cappelli anni ’40 oppure vestiti a strisce verticali sono simboli che ci trasportano immediatamente nei lager tedeschi. Con Tolosa si procede per simboli e, soprattutto, per associazioni di pensiero. La velocità deve essere una caratteristica dello spettatore e non del pittore. Quindi, in questa mostra, ci ritroviamo all’antitesi dei movimenti incalzanti e delle immagini dinamiche dei futuristi. Tolosa non vuole esaltare come loro la modernità ma sospingere tutti ad una riflessione critica sullo stesso tema. Il suo è un atto di denuncia non di approvazione. Tolosa non si limita ad “annunziare” ma vuole  “compiere l’azione”, intervenire sui fatti, quindi denunciare gli atti riprovevoli dei tempi moderni. Anche se l’artista campano dipinge per se stesso e non nutre scopi politici, manifesta più che altro una denuncia morale, un’opposizione generale che potremmo associare a quella dei Die Brűcke i quali si opponevano anche ai diktat delle accademie. Anche il gruppo tedesco dell’Espressionismo si era concentrato per lo più sull’analisi dei volti e degli ambienti urbani, ritornando ad un tratto semplice e primitivo del disegno per esprimere la parte più interna e non esterna dei soggetti ritratti a cui si vuole dare voce. Inoltre, a differenza di Kandinskij o di Paul Klee, Nicholas Tolosa non si abbandona all’assolutezza dell’Astrattismo ma riparte dalla realtà seppure riletta e rielaborata con una propria chiave di lettura.

 

È un destino ingiusto e spietato quello del secondo dipinto della mostra, seguendo un criterio cronologico, datato 2011. “Incontro al destino” ricorda la rassegnazione, l’umiltà, una quasi atarassia tipica degli ebrei che guardano verso un obiettivo come se fossero ripresi da una cinepresa. È l’alto della loro coscienza, essi procedono perché quella è la strada che la storia ha segnato per loro. Si avverte la fatica di portare sulle proprie spalle il fardello dei peccati umani, capri espiatori degli errori che si ripetono ciclicamente dalla notte dei tempi. È questa la visione tolosiana, ciclica, uguale a se stessa perché per l’autore il dramma non avrà mai fine, è intrinseco alla storia dell’uomo. Questa coda umana, questa folla organizzata in fila è simbolo della crudeltà del destino che coinvolge non il singolo ma l’intera comunità, non solo la vittima ma anche il carnefice. Perché l’esperienza del male cambierà tutti irreversibilmente. La potenza del fato, spesso architettata dalla violenza dell’uomo, riesce anche a premeditare il male, a pianificare la distribuzione di corpi umani proprio come in “Incontro con il destino”. Stesso tema era già stato toccato da Tolosa qualche anno prima, nel 2007, in “Innocenza” (non presente in mostra) per rivisitare l’Olocausto dall’ottica di un bambino che va ignaro incontro al suo destino mentre gli adulti osservano inermi l’incalzare di una storia illogica.

 

Un altro riferimento ai campi di sterminio è innegabile in “Treblinka” (2012), letteralmente una fabbrica di morte. Nonostante l’abbigliamento dell’uomo ritratto sia curato e distinto, il suo sguardo tradisce sofferenza, preoccupazione, costernazione. Infatti, la sua ombra che si proietta sul muro bianco sembra preannunciare la sua sorte, il suo prossimo isolamento dall’esterno. È la fase iniziale di una disumanizzazione completa. Tolosa avrà scelto in particolare Treblinka per la nota violenza esercitata sulle vittime proprio in questo lager, per esemplificare il culmine del male a cui può spingersi l’uomo, essere mortale.

 

Sullo stesso scenario si consuma la triste visione del dipinto “Nelle mani nulla” (2013) per un ritorno al nichilismo più che mentale, materiale. Il corpo in primo piano ha il torso nudo ed intorno a sé non restano che brandelli di stoffa e probabilmente brandelli di uomini non ben distinti nel caos di elementi sparsi per terra. Sullo sfondo, come al solito, passeggiano uomini con atteggiamento indifferente per tutto ciò che li circonda. Qui è più che mai evidente la mancanza di quella social catena di cui parlava Leopardi nel XIX secolo, già alquanto preoccupato per il progresso apparente dei tempi moderni. Cosa resta in questa scena esemplificativa? Nulla, nessun sentimento magnanimo, nessuna consolazione, nessuna speranza e persino nessun oggetto materiale ben definito e nemmeno una persona fisica in buona salute. È il nulla della guerra, dello sterminio, delle insensate crudeltà pianificate da un uomo che ha smarrito Dio ed il suo insegnamento.

 

Anche se in un contesto non ben precisato, la drammaticità dell’esistenza ritorna incombente in “Povertà” (2014). Già i titoli nella loro semplicità preannunciano la pochezza umana e la sua estrema fragilità e vulnerabilità. A differenza, però, del precedente dipinto, qui, i protagonisti della scena nelle mani hanno qualcosa, anzi, posseggono molto, il sangue del proprio sangue, nuove vite da curare e “coltivare”. Perciò, questi genitori di “Povertà”, pur non possedendo nulla di materiale, hanno il bene più prezioso, i propri figli che permetteranno loro di provare un sentimento raro, esclusivo, la speranza. Se non si crede più nel volgimento al bene per la propria vita ma non si può non sperare in un avvenire migliore per la propria prole. Sembrano infatti esattamente l’emblema del proletariato urbano tra fine Ottocento ed inizio Novecento. È innegabile il senso di mestizia di questo dipinto che però, a differenza di altri, lascia ancora trapelare una spinta di fiducia verso il futuro. Questo è evidente nello sguardo di affetto della madre rivolto verso il figlio riverso per terra. Un atto di amore in uno scenario desolante, un segno di vita in un contesto quasi nefasto. Tra l’altro, sono sempre gli emarginati, i declassati, gli indigenti a subire le peggiori conseguenze della violenza umana, a pagare lo scotto di errate decisioni altrui.

 

In contrasto al tema della morte e della povertà, si ritorna al germoglio di nuove speranze tramite la dolce immagine di “Vita Nuova”. Singolare e forse un po’ inquietante, però, si presenta un dettaglio. A nutrire il neonato non è il seno della madre ma il biberon tenuto in mano da un’infermiera. Critica sociale o semplice caso? La scena di un allattamento sicuramente avrebbe infuso più dolcezza al dipinto anche se il sorriso smagliante della donna crea un’atmosfera di tenerezza ed intimità profonda. Inoltre, la grandezza dei dipinti in mostra, cinquanta per settanta centimetri, è una dimensione molto probabilmente scelta, voluta, desiderata. Un piano esteso ma non esageratamente per ricreare un ambiente spirituale e protetto, per evitare che lo spettatore si disorienti di fronte ad una superficie troppo grande. Una dimensione studiata per la riflessione, per un approccio, come sempre, vis à vis, tra soggetto ritratto e pensante.

 

Tuttavia, il richiamo al dramma umano è troppo forte, sconcertante per poterlo ignorare, la storia esige azione, anche quella estrema della morte. Così, in “Ultimo istante” (2009), probabilmente un carcerato se non un deportato si mostra con le mani legate in alto, pronto ad affrontare l’ultima prova che la vita gli impone. Un atto apparentemente di rassegnazione che però mostra coraggio nell’ammissione dei propri limiti, dei propri ostacoli. L’uomo non può nulla di fronte al ciclo di violenza che la storia umana impone ai suoi “attori” costretti a recitare un copione di cui non possono modificare molto se non qualche battuta, introducendo al massimo qualche misera improvvisazione. L’essenzialità della scena con un background spoglio, bianco quasi già etereo, mette in primo piano non tanto la figura umana quanto il suo dramma incommensurabile a cui sembra che nessuno possa porre rimedio.

 

Ed ecco un bambino fissare spaurito l’osservatore, in un tempo e in uno spazio non ben precisati dato che la figura occupa tutto il riquadro. L’espressione smarrita, incerta, inquieta del bambino ci sprona quasi a prenderci cura di lui, a volerlo proteggere da eventuali, future minacce esterne. Ed infatti, in questo caso, il titolo completa l’opera, “Quale futuro” (2012), dove il punto interrogativo spetta all’osservatore. A quest’ultimo toccherebbe anche tentare una risposta. Quale avvenire può avere un bambino collocato in questa era così avanzata eppure così tetra? Probabilmente sarà testimone di una storia che ancora non conosciamo ma lo sguardo malinconico del protagonista sembra presagire il ritorno ciclico del male, in linea con il pensiero di Tolosa.

 

Se finora abbiamo parlato spesso del ciclo della storia non da meno è l’incombenza del Tempo sovrano che di frequente affretta i passi, sconvolge il destino. Esso è tra l’altro molto soggettivo e la sua percezione è falsata da eventi e pensieri, impressioni e desideri.  Qui è personificato il “Tempo” (2012), presentato come un uomo anziano, stanco, dallo sguardo impietoso, perché le sue virtù quali la capacità di fertilizzare il terreno tramite il ciclo agricolo, di attendere la nascita di una nuova vita tramite il grembo materno sono state soppiantate dalla priorità di divorare le cose che egli stesso ha creato. La voracità del Tempo ha fatto perdere il valore dell’attesa, del pazientare. Sembra un capo sezionato, privato di corpo, quasi astorico che ricorda quelle sembianze legate all’immaginario di Dio, sguardo severo, barba bianca, saggezza intrinseca. Anche in un’immagine così semplice, “unica”, si può ritrovare la complessità della storia che non è possibile scandire senza l’ausilio del dio Chronos.

 

Un esempio di simbolismo drastico Tolosa lo offre con “Maschera quotidiana” (2014), il cui titolo è già molto evocativo. Di questo soggetto in acrilico esiste anche una versione in idropittura su carta intitolato però “Napoletanità” che da una parte non nasconde le radici campane dell’autore, dall’altra riscopre il valore del teatro partenopeo. Le tradizioni e il calore della terra di Tolosa si insinuano anche nella sua produzione che quindi non può prescindere dalle sue origini, immerse in un’unicità di linguaggio, gestualità e drammaticità. Soprattutto Napoli ci insegna a saper risorgere nonostante le angustie quotidiane, a saper affrontare la vita con un sorriso, con teatralità, a prendere come esempio l’araba fenice che si rianima dalle sue stesse ceneri. Così, le due opere dello stesso anno analizzano, su superfici diverse, due facce della stessa medaglia. Tuttavia, verrà presentata in mostra soltanto “Maschera quotidiana” che sembra soffermarsi su un preciso aspetto della tragicomicità della vita, la falsità dei rapporti umani, l’atteggiamento pirandelliano dei più. Inoltre, l’autore si interroga su quale maschera cambiamo ogni giorno, di fronte a nuove persone e situazioni. L’opera è attualissima non solo per la sua recente datazione ma più specificamente per la forza con cui spinge a riflettere pur partendo da un soggetto così semplice ed unico. Pertanto, il tema sembra efficacemente attinente a questa poesia di Anton Vanligt, “Mai troppo folle”:

 

La mia maschera è pronta.
Comincia la giornata.
Passano i giorni, gli anni.
-sorriso perenne-
sguardo sempreverde.
Il sole della mia espressione
scalda coloro che mi stanno intorno.
I conti tornano, la vita avanza.
Va bene così.
Rientro in casa, passo oltre le stanze
dotate di specchio.
Il sipario è calato, sono sola.
Poso la maschera, piango.
 
E quando il sipario si chiude e la maschera viene riposta, allora c’è libertà di espressione, di quella più dolente come le “Lacrime nere” del 2014. Attenzione, non sono lacrime comuni, né trasparenti ma trasudano la fatica, la “sporcizia” del mondo “moderno”. Dai tratti somatici del viso in primissimo piano, dall’osservazione delle narici dilatate e della bocca carnosa, sembra trattarsi di un uomo di colore colto nel suo momento di disperazione, sommessa, delicata. È facile pensare che anche qui Tolosa si scagli fortemente a difesa degli emarginati come appunto le persone di colore, gli immigrati, gli extra-comunitari. Qui, in un’unica soluzione, è espressa con forza tutta la sofferenza che può provare una persona sradicata dal suo luogo di origine e, per di più, schernita per la sua diversità di razza, di colore e di nazione.
Quali sono i miei obiettivi? In che direzione sto andando? Ho fatte le scelte giuste? Sono soltanto alcune delle domande che l’uomo contemporaneo si pone quotidianamente, universalizzato in “Chi sono” del 2015. In questo titolo manca il punto di domanda perché spetta a noi discernere l’affermazione dall’interrogazione. Eppure, non c’è dubbio, l’uomo moderno è assillato da incognite, ha perso tutte le sue certezze e non può esclamare davanti al pubblico “ecco chi sono” ma semplicemente “sono proprio questo? Soltanto questo che vedete anche voi?” Così si ritorna ai dubbi pirandelliani che ci spingono a chiederci se per gli altri siamo davvero ciò che pensiamo di noi stessi. Inoltre, nel dipinto la testa sovrasta il corpo, occupa gran parte dello spazio perché si vuol mettere in luce l’attività intellettiva, il movimento incessante della mente. Invece, il corpo occupa uno spazio esiguo e sembra ritrarsi e ridursi anche per l’effetto della pelle scarna che lascia intravedere l’ossatura. È lo sguardo che cattura l’osservatore, uno sguardo quasi assente ma attivo, degli occhi che guardano verso una direzione non ben precisata. Inoltre, sarà per l’effetto di un’ombra improvvisa, il soggetto sembra essere stato azzittito con una benda legata intorno alla bocca. Probabilmente si tratta di un’illusione ottica costruita acutamente per ricreare un senso più che di impotenza di inascoltato. Il soggetto ritratto ha pensieri, progetti, discorsi da esprimere al prossimo ma ciò non gli è consentito perché, pur avendo consapevolezza del proprio sé, non può esprimersi in quanto portatore di verità. La società ha bisogno di rituali che si ripetono sempre uguali a se stessi, di formalità rassicuranti, di convenzioni consolidate e non di affermazioni veritiere ed autentiche che potrebbero sconvolgere e rivoluzionare l’assetto prestabilito. Questo ritratto è un uomo in gabbia, una sorta di “paziente anestetizzato” come direbbe T. S. Eliot.
La maggior parte degli uomini preferisce lasciarsi trasportare da certezze illusorie ma condivise e ufficializzate, prediligono un cammino già segnato…eppure questo è il percorso della morte intellettuale, dell’apatia mentale, dell’insensatezza umana. Così in “Dormi” (2015), il contrasto tra titolo e sostanza è così stridente da non poter ignorare l’esigenza di un cambiamento universale. Di fronte a questa tela non si può restare ancora inetti ed inermi. Bisogna agire. Tolosa lo fa con il dramma. Mette in scena la vittoria di Thànatos sulla vita, un abbandono alla morte che però l’autore esorcizza con un “dolce dormire”. È questa la sorte che spetta agli inetti, a coloro che si lasciano vivere come spettatori della propria vita. Non c’è dubbio che la scena sia una descrizione funesta se si nota anche il velo trasparente e delicato che avvolge tutto il capo e che copre anche il resto del corpo. Poi si osservano le palpebre chiuse, la bocca serrata, un atteggiamento pacato proprio di chi ormai non ha più contatti con il mondo reale. Molto suggestivo è il gioco di luci ed ombre che, con maestria, Tolosa ha reso grazie all’alternanza di bianco e nero.
In ultimo, con la tela del 2015, “Giancarlo Siani”, l’artista partenopeo ritorna a parlare delle contraddizioni della sua terra, la Campania. Infatti, con questo dipinto, egli celebra il coraggio e la determinazione di Siani, giornalista napoletano, che, per combattere e svelare i meccanismi subdoli della camorra, ha sacrificato la sua vita stessa. Infatti, è stato assassinato nel 1985 dalla mafia su cui stava scrivendo un’inchiesta molto dettagliata. In particolare, Siani era considerato un elemento “scomodo” per le dinamiche politiche del posto perché cercava anche di fare chiarezza sugli appalti pubblici previsti per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto dell’Irpinia del 1980. Questo è un omaggio a chi, al contrario degli inetti, non solo non resta indifferente davanti agli eventi storici ma vuole anche intervenire, drammatizzare nel senso di compiere un’azione al fine di apportare il proprio positivo contributo. Purtroppo, la prepotenza dell’uomo, l’esigenza di dominio, le priorità economiche vinceranno sempre, nonostante tutto. Eppure ci deve essere una lotta, un fermento, altrimenti non si potrà neanche più denunciare, rivoluzionare, ribellarsi. Altrimenti i giochi sarebbero già stabiliti e definiti. Per questo, dobbiamo ancora conoscere, lottare per la dignità propria e dell’umanità intera. E l’arte può essere un mezzo per non restare muti e ignari, per non lasciarsi vivere ma per far vivere anche alle persone più emarginate, più lontane dal mondo della cultura, il senso della vita nella sua alternanza tra bene e male. L’arte visiva, più di ogni altra, è un mezzo democratico di conoscenza perché il suo messaggio è alla portata di tutti, colpisce la vista di ogni passante, esige forzatamente ascolto vigile e disinteressato. Come afferma Tolosa: “Credo la mia arte risponda a un bisogno collettivo di sapere. Racconto il male del mondo, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, la fame nel mondo e tutti devono sapere che ciò non dovrebbe mai accadere ma non cesserà mai il male, intrinseco nell’uomo stesso”. Così tutti devono sapere, incuriosirsi, avere sete di conoscenza e ciò è possibile grazie ai prodigi dell’arte e, soprattutto, grazie a chi dà forma e nuova stoffa alle linee, alle forme e ai colori.
Da un autore così giovane (nato nel 1981) la cui produzione si concentra per lo più negli ultimi anni fino al 2015, non ci si aspetterebbe una tal profondità di intenti. Questo significa che nuove energie, acute prospettive, visioni non superficiali del mondo, consapevolezza del presente sono tutti grandi contributi che solo menti giovani possono ancora apportare. Menti incorrotte, ancora speranzose, lottatrici e ribelli.
Questa produzione, nata e coltivata da una fervida mente partenopea, potrebbe non esaurirsi mai perché, purtroppo, il male si insinua ovunque, nei pensieri e nei meccanismi storico-politici. Tuttavia, non colpevolizzare ma consapevolizzare l’opinione pubblica può essere una proposta morale più efficace di quella politica. Infatti, Tolosa, innanzitutto, crea per se stesso ma se tutti, per emulazione, creassimo, pensassimo, riflettessimo, si potrebbe già sconfiggere l’insensibilità generale con il ritorno di quel seme fertile che è la speranza dell’uomo. Per questo, l’artista di Eboli ha dichiarato in un’intervista: “non so se il mio lavoro interessa agli altri e non mi pongo il problema. Io dipingo per necessità e per trasmettere un messaggio, per dare voce a chi non ce l’ha, voce alle mie periferie umane, coloro che quotidianamente vengono messi da parte”. In questo modo, un’esigenza personale potrebbe diventare un esempio morale.
Questa in allestimento è una mostra che tocca letteralmente gli animi, li smuove, li incita ad una presa di posizione. Bisogna schierarsi a favore o contro, per il bene o il male, ormai non esistono più compromessi. Apprezzare, promuovere l’arte tolosiana vuol dire già agire sul mondo, rendere il dramma moderno più teatrale e meno sofferto, più tollerabile e meno meschino.