«Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra/ ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna»[1]: si tratta dei primi due versi del componimento La bambina di Pompei di Primo Levi, deportato ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Scampato ai campi di sterminio, da quel momento Levi si dedicò alla stesura di testi e racconti che potessero costituire una testimonianza concreta e durevole delle atrocità viste e subite.
Ma cosa hanno in comune Primo Levi, celebre autore ebreo, e Nicholas Tolosa, giovane artista originario di Eboli, Salerno? Figli di tempi ed esperienze lontane tra loro, entrambi si fanno narratori, sebbene con media differenti, di un evento storico di enorme portata: l’eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. La vera similitudine, però, non risiede tanto nel tema scelto quanto nella volontà, tramite esso, di raccontare le ingiustizie del proprio tempo: le drammaticità della Shoah per quanto riguarda Levi e le criticità della società odierna nel caso di Tolosa. Pompei diventa quindi un pretesto e, insieme, il campo di rivalsa dei vinti, degli ultimi, di popoli e singoli socialmente emarginati o discriminati.
«Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata/ a incarcerare per sempre codeste membra gentili» scrive Levi. E continua «così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso/ agonia senza fine […]» [2].
L’allusione è ai calchi in gesso realizzati a seguito della scoperta delle città di Pompei ed Ercolano nel 1738 e delle vittime rimaste coinvolte nel tragico accadimento ma, soprattutto, grazie agli studi e al lavoro di Giuseppe Fiorelli, il quale allestì, tra il 1873 e il 1874, il primo Museo Pompeiano. [3]
Nel paragone precedente, Tolosa si dimostra degno pari di Levi, nonché valido narratore di un fatto epocale e di un quadro sociale contemporaneo veritiero seppure spinoso. In seguito a uno studio accurato dei calchi pompeiani, nel 2019 Nicholas Tolosa inizia la serie 79 d.C., composta da dieci tele 100x100 cm. In perfetto stile neoclassicista, l’artista recupera l’oggetto antico facendolo proprio e,allo stesso tempo, di tutti: un attento prelievo dal passato, volto a raccontare il presente e, perché no, agire sulle sorti del futuro.
I calchi di Tolosa abbandonano lo stato tridimensionale originario e si presentano al pubblico nella bidimensionalità di una pittura su tela,caratterizzata da linee morbide e forme appena accennate. Privi di occhi e segnati da tratti più o meno decisi, i volti sono simili a delle maschere, tipiche di un primitivismo cui Tolosa fa riferimento in altre opere della sua produzione,tra cui le Maschere quotidiane esposte nel 2015 al Centro Culturale Tecla di Napoli e la serie di arte urbana Nafricapoli, gigantesche figure visibili in diversi quartieri partenopei.
Una vera full immersion nell’antico che trova riscontro nel contemporaneo grazie allo stile dell’artista, a metà fra la Neopop e la Street Art, dove i colori svolgono un ruolo fondamentale. Nicholas Tolosa ne usa due: il nero, utilizzato principalmente per lo sfondo, e il grigio in diverse sue sfumature, che viene impiegato nella raffigurazione dei calchi. Una scala cromatica scarna ma significativa che non solo rimanda alla fotografia, medium tipico del reportage, ma che allude alla tragicità degli eventi narrati pur senza disperazione e,allo stesso tempo, alla cenere che dopo l’eruzione del Vesuvio ha incarcerato i corpi delle vittime.
In definitiva, 79 d.C. è sì rappresentazione di un fatto storico naturale, la ripresa dell’antico, della reliquia, ma anche – e soprattutto – la chiara trasposizione figurativa della ricerca di un’umanità e una dignità talvolta perdute, che trova spazio tanto nel grido di Tolosa in favore degli ultimi, dei migranti, degli emarginati, quanto in quel silenzio necessario che aleggia nelle opere dell’artista.

 



[1]Primo Levi, La bambina di Pompei, inAd ora incerta, Garzanti, Milano, 1978, vv. 1-2.

[2]Ivi, vv. 10-13.

[3]Pompeiisites, I Calchi, <http://pompeiisites.org/pompei-map/approfondimenti/i-calchi/>,consultato il 1 febbraio 2023.